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Roberto Esposito: “Le persone e le cose”
di Roberto Fai

3 aprile 2017*



Se davvero la vita e il corpo costituiscono la posta in gioco della politica contemporanea — così come noi riteniamo —, solo una radicale e, per certi versi, simultanea decostruzione della categoria di ‘persona’ e di ‘cosa’ è in grado di offrire l’esempio più lampante dei processi riassumibili in quel concetto di biopolitica, che, nel suo doppio, contrastante versante — o d’inclusione del bios dentro logiche e dispositivi di dominio-potere, o di “infinita apertura” della vita, dal momento che il campo di “normatività” che affiora dalla ‘soglia’ che lega “l’invariante biologico” alla dimensione tecnico-artificiale della stessa è in grado di spostare in avanti la “giuntura organica” che connota il vivente, sì da espandere/trasformare la “natura umana” —, costituisce il cuore del conflitto politico del nostro tempo. Peraltro, la fecondità ermeneutica di tale operazione decostruttiva è in grado di far emergere come, sia le “cose” sia le “persone” — lungo il tragitto che interseca e sovrappone, nella storia della cultura umana, il peso della filosofia greca, del diritto romano e della religione cristiana —, più che essere scandite e definite da quell’apparente spartiacque che li espone e li articola nella loro reciproca opposizione (chi è persona non può essere una ‘cosa’; né mai le cose possono assurgere al ‘valore’ di persona), sono ancora inscritte in una sorta di “inclusione escludente”, o di “esclusione includente” — vale a dire, in un sistema di dispositivi di “sapere/potere” che, come un chiasma, hanno intrecciato lungo i secoli le sorti delle ‘persone’ e delle ‘cose’, facendoli slittare e rovesciare nel loro opposto. Ed è solo attraverso una presa di coscienza della necessità di dover operare una critica verso la “macchina teologico-politica” dell’Occidente che potranno dispiegarsi le condizioni perché un’integrale biopolitica affermativa, possa liberare le “forme di vita” da ogni sovrastante ed ‘esterno’ potere pervasivo. Non a caso, è proprio da questo sguardo genealogico, che sa indagare la paradossale circolarità che ha legato ora le ‘persone’ ora le ‘cose’ — le une nel rovescio delle altre —, che lo statuto del corpo, la valenza dei ‘corpi’ — i corpi umani, i corpi sociali, i corpi politici — possono affiorare nella loro inesauribile domanda (ed esperienza) di libertà, a conferma che la potenza infinita della vita non può che sporgere continuamente, reclamando una politica che sia in grado di corrispondere ad essa.

A grandi linee, sono queste le coordinate filosofico-politiche che Roberto Esposito consegna nel suo denso saggio, Le persone e le cose, da poco edito da Einaudi. Attraverso un denso e convincente percorso genealogico, l’autore, offre una risistemazione concettuale sia della categoria di ‘persona’ che di ‘cosa’, per approdare alla valorizzazione e centralità ermeneutica della ‘corporeità’ che — lungo i sentieri che, rovesciando le aporie che legano Cartesio a Kant, da Vico e Spinoza giungono dapprima a Nietzsche, poi a Foucault, a Deleuze, a Jean-Luc Nancy, sino a Peter Sloterdijk e alla sua antropotecnica — aiuta a cogliere il «dispositivo combinato di personalizzazione e depersonalizzazione» che ha fatto sì che, nel corso dei secoli, il transito continuo tra persone e cose facesse del ‘corpo’ — dell’uso dei corpi, potremmo dire, parafrasando il titolo di una straordinaria ricerca di Giorgio Agamben — la ‘cosa’ a disposizione del soggetto.

Infatti, come è ben noto, pur significando — staremmo per dire, pur ‘im-personando’, nel senso di ‘rappresentare’ —, il termine persona, in origine, maschera, esso, pertanto, rinvia così a quello ‘scarto’ che segna, non già una piena e immediata coincidenza, bensì la distanza, la differenza — se si vuole, in una sorta di tramite, di funzione, di ufficio — tra il “vivente umano” e le trame plurali delle sue espressioni d’esistenza. E se la categoria di persona è pur assurta, nella modernità, al rango pieno e indiscusso del potere di nomina diretta dello “statuto del soggetto”, dell’individuo, del cittadino, ciò non ha affatto significato che persona e vivente umano si siano avvitati in una sorta di “fusione totale”, pur se ciò è valso a conferire alla prima un valore universale, indiscusso e intoccabile. Ne sono prova, da una parte, il fatto incontestabile che l’idea di persona sia giunta, nella filosofia primonovecentesca, a connotare la principale corrente speculativa — la fenomenologia —, incidendo dentro le componenti sia ‘laiche’ che ‘cattoliche’ del pensiero e/o delle scuole filosofiche del tempo, e dall’altra, il fatto che tale categoria, attraverso il personalismo cattolico moderno (con Jacques Maritain, quale massimo e autorevole riferimento — si pensi solo alla definizione di persona dallo stesso ‘proposta’ nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948), abbia connotato essenzialmente la parte razionale, morale, spirituale e volontaria del vivente.

Da questo punto di vista, con Le persone e le cose, Roberto Esposito prosegue, rinnova e rielabora — in termini più succinti e più asciutti, ma pur sempre raffinati — il quadro ermeneutico fondamentale che egli aveva offerto nel 2007, sempre con Einaudi, con il saggio più ampio, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale. Testo che, per la sua ricchezza analitica e argomentativa, fa da ‘sfondo’ teoretico a quest’ultimo, che pur mantiene la sua sobria ed elegante autonomia speculativa — centrata, rispetto al primo, su quella emersione del corpo e della corporeità, letti nella loro chiave sia fisico-materiale che analogico-metaforica: basti pensare a quel 5° paragrafo finale del libro, dedicato ai “corpi politici”. Non è un caso che, proprio attraverso una valorizzazione del nesso “corpo-vita”, Esposito riesca a «sciogliere questo nodo metafisico tra cosa e persona», che è riuscito a produrre un reciproco rovesciamento o il medesimo esito dissolutivo per entrambe — «al processo di depersonalizzazione delle persone corrisponde quello di derealizzazione delle cose» —, oppure l’assunzione delle cose dentro il ‘feticcio’ della loro forma fantasmagorica — il cui culmine finale è espresso dal “capitalismo estremo” e cultuale, come aveva ben visto Walter Benjamin nel suo penetrante, per certi versi, esoterico frammento postumo sul Capitalismo come religione.

Così come, infatti, tornando ad Esposito, la stessa categoria e/o dispositivo di persona (sino alla configurazione di “persona giuridica”) siano serviti a ‘dividere’ il vivente umano in quella soglia in cui “l’uso del corpo” è relegato nella sua mera cosalità — già nel diritto romano, come noto, dove le persone si dividono in ‘liberi’ e ‘schiavi’ (includendo, qui, anche le mogli, i figli, i debitori insolventi, ecc.) —, sino al punto da inaugurare così quella “logica proprietaria” che (ed Esposito sa riassumere, in pagine intense e brillanti, il lungo tragitto che si snoda nella modernità) giungerà, trasformata, sino al “feticismo delle merci” nel capitalismo e nella critica operata da Marx, oppure, su altro versante, in quel “governo dei corpi” che, mentre da una parte vede proclamare la centralità della persona e dei “diritti umani”, connoterà il ’900 come il secolo in cui il corpo e la vita diventano la posta in gioco della lotta politica. Non a caso, l’autore legge e inscrive, opportunamente, il nazismo (e per la raffinata prova ermeneutica di questi processi, non possiamo che rimandare ad un altro saggio che Esposito ha offerto nel 2004 con Bios. Biopolitica e filosofia), quale vettore perverso, patologico e mortifero, attraverso cui la ‘biopolitica’ è stata, nella prima metà del ‘900, capovolta in ‘tanatopolitica’.

Sullo sfondo, il contrasto sull’idea di “natura umana”, o il rapporto tra tecnica e vita, che aprono dilemmi bioetici e/o ‘biopolitici’ irrisolti, al punto che, come appare sempre più evidente e urgente, «la tecnica biologica dell’impianto e del trapianto, che oggi immette nel corpo dell’individuo frammenti di corpi altrui, o addirittura cose in forma di macchina, è significativa di una trasformazione che travolge i confini proprietari della persona» (corsivo nostro).

Il che conferma davvero come il corpo sia diventato, e lo diventi sempre più, la posta in gioco di un conflitto estremo che tocca direttamente interessi e dinamiche di carattere giuridico-normative, etiche, teologiche e politiche, al cui interno si giocano i destini sia delle vite individuali che quelli del corpo politico, del ‘popolo’. Basti pensare all’emersione — sino a poter evocare una sorta di spinoziano ‘ritorno’ — di quella categoria di moltitudine, stante che i “corpi politici”, esposti alla crisi del Leviatano moderno e nel destino di un’indiscutibile e inevitabile “macchina globale” del mondo contemporaneo (che sembra incidere profondamente nello Stato novecentesco, segnandone il compimento della sua “forma nazionale” — il che non vuol dire la morte/fine definitiva) —, evidenziano la perdita di senso sia dell’idea di ‘sovranità’ che delle forme della ‘rappresentanza’ e dell’autoriconoscimento collettivo. Sino a quell’invadenza del corpo, che già, profeticamente, Guy Debord, a metà degli anni sessanta del secolo scorso, intravvedeva nel suo classico testo, La società dello spettacolo, a conferma che, come scrive plasticamente Esposito, «la stessa persona del leader — come era diversamente accaduto ai capi totalitari e come è inevitabile nella società dello spettacolo — non è più separabile dall’esibizione continua del proprio corpo, in una sovrapposizione mai così integrale di dimensione pubblica e dimensione privata».

Al punto che, se possiamo permetterci un ‘volgare’ accostamento analogico (politicamente, molto attualizzante) — e sappiamo di ‘scadere’ un po’, rispetto al valore altamente speculativo del saggio di Esposito, al quale, qui, ci siamo dedicati –, potremmo dire che la schematica contrapposizione tra Ditta e ‘persona’ del Leader — la prima pensata enfaticamente come potente ma esclusivo “spazio della rappresentazione”, la seconda solo come una mera deriva populistica di dinamiche ‘personalistiche’ — rasenta uno dei punti più bassi di banalizzazione della cultura politica novecentesca. Piuttosto, l’ultima citazione con cui qui chiudiamo queste nostre sintetiche riflessioni sul bel saggio di Roberto Esposito, conferma — potremmo dire, dentro l’ambito del denso e inesauribile capitolo di “teologia politica” — il valore straordinario del gioco svolto dalla semantica del corpo della persona regale, secondo le intuizioni che Ernst Kantorowicz aveva espresso nel suo classico, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale.

Per chiudere, non possiamo non fare riferimento alla centralità che il pensiero e le riflessioni filosofico-politiche di Roberto Esposito sono venuti acquisendo oltre i confini nazionali, nel corso degli ultimi due decenni. Non parliamo soltanto della curiosità, degli interessi e del riconoscimento che la filosofia francese — in particolare, e non solo, per i rapporti che hanno legato Esposito a Jacques Derrida, a Jean-Luc Nancy e ad altri — ha tributato all’autore qui in questione, bensì alla particolare attenzione speculativa che ambienti della filosofia e del mondo accademico statunitensi hanno dedicato — e continuano a dedicare — a Roberto Esposito e ad altri studiosi italiani, in seminari di studio e pubblicazioni. A conferma dell’intensa ‘vitalità’ che la filosofia italiana torna a riacquistare, dopo i lunghi decenni di egemonia culturale dei tre vettori di pensiero decisivi in cui si era articolato il ’900 filosofico occidentale — la filosofia analitica anglo-americana, l’ermeneutica gadameriana e il filone francese (Foucault, Derrida, Deleuze, Lyotard, Nancy, ecc..), susseguente al declino dello strutturalismo di De Saussure. Anche perché, da Machiavelli a Vico, la centralità dell’orizzonte problematico delle loro domande sul nesso/legame tra storia, politica e vita — indubbiamente, il connotato specifico che lega genealogia e filosofia — attesta il carattere vivente del “pensiero italiano”.

* Prima pubblicazione: Kasparhauser | Etica, 15 novembre 2014.



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